Capital City - 27/05/2516
Esistono sogni che sono una
sequenza di pensieri collegati tra loro per fattori minuscoli in comune. Ci
sono sogni dove hai il controllo, dove una parte del tuo cervello è cosciente a
tal punto da permettere la guida all’interno del sogno. Ci sono sogni invece in
cui sai di essere cosciente, sai di star dormendo, e ti ritrovi immobile. Sei
cosciente e sei incapace di muoverti. È l’esperienza più terrorizzante al
mondo, dove tutte le paure si uniscono in pochi istanti, scanditi nel tempo.
Hai paura. Pensi di essere morto.
Gli incubi sono qualcosa di
scientificamente utile per affrontare le proprie paure, per processare i
pensieri alla quale non siamo riusciti a dare significato o prestare attenzione
durante la giornata. È come se il nostro cervello avesse accantonato in un
angolo centinaia di informazioni ancora da processare. Non vi è molta
differenza tra questi ed i bei sogni. L’unico particolare è l’intensità emotiva
di cui son carichi.
George è abituato agli incubi, li
conosce bene, alcuni si son ripetuti più volte nel tempo, altri una volta
soltanto.
Quando ritornò con la mente a
Serenity Valley, si sentiva sicuro e preparato, non poteva aspettarsi che
fantasia e realtà si sarebbero miscelati nel più terrificante dei sogni mai
avuti. Indossava la tuta spaziale delle unità mediche da campo dei RedRibbon. Si
muoveva per il campo base con il casco sotto il braccio per raggiungere il
proprio plotone, un gruppo di uomini e donne evidenziati da quel colore
sgargiante, visibile tanto di notte quanto durante giornate di tempesta o
nebbia. Canarini, fu il soprannome a loro assegnato. Il capitano del plotone
stava davanti a tutti, fissava negli occhi ognuno dando ordini, istruzioni e
consigli su come affrontare la faccenda. George era pronto, era sicuro e
preparato, sapeva cosa doveva fare.
I versi dei Mauler e dei Dragoon
a distanza riempivano la valle, straziandola.
Don’t let the flock, my Canaries.
In un battito d’occhio era seduto
a fianco dei suoi compagni sul lato di un thor a fissare gli occhi in quelli di
Grace che ne rispecchiava la determinazione. Ognuno di loro era pronto, sicuro
e preparato.
Il thor venne fermato, i Canarini scesero a terra, i lampeggianti
sulle spalle attivati, si mossero rapidi per il campo di battaglia avvicinandosi
ai primi corpi, controllandone lo stato, se vi era un morto veniva segnato con
dello spry sul petto una x rossa. Continuarono a muoversi fra le vittime e i
feriti con l’unico obiettivo di posarsi sopra coloro che avevano abbastanza
fiato in corpo per sopravvivere.
Lo scoppio delle bombe, le
ripetizioni di proiettili perforanti che falciavano l’aria, ogni suono veniva
tenuto lontano dalle loro coscienze, concentrati sui loro battiti per evitare
di perdere la concentrazione, di cedere al terrore della guerra. Lui era chino
su un Browncoat con in mano ancora il bowie macchiato del sangue di un soldato
unionista, stava svolgendo il proprio lavoro, lo stava svolgendo bene, si
sentiva sicuro e preparato.
Poi il sogno mutò e lui ne perse
completamente il controllo.
Gli scoppi e le ripetizioni cessarono
all’improvviso mentre un suono di tromba sconquassò cielo e terra.
Terrorizzato, George alzò gli occhi al cielo e lo vide preda delle fiamme.
Pietrificato non credette ai suoi occhi, quando dal cielo scesero sulla terra
quattro cavalieri in sella a stalloni di razza dai differenti colori. Toccarono
il suolo fra i soldati in preda al terrore. Il primo cavallo, dal manto di un
castano rossiccio, quasi sanguigno, nitrì.
I soldati caddero in ginocchio con
gli occhi sgranati e le mani portate all’addome cominciando ad urlare dal
dolore fino a quando dallo stomaco delle bisce sottili e viscide scavarono la
carne per uscire, e scivolare sui loro cappotti marroni.
Il secondo cavallo di un grigio
polveroso nitrì e fu la volta delle giacche blu di cadere a terra. Gli arti
mozzati da spade invisibili. Brevi furono le urla di dolore e sorpresa fino a
quando ogni testa cadde rotolando al suolo infangato dalla pioggia e dal
sangue.
Il terzo cavallo, di un bianco
impeccabile ed intonso, nitrì e furono i Canarini a cadere. George si voltò per
vedere i medici, i propri compagni portare le mani alla gola incapaci di
respirare fino a poi tossire tutto il loro sangue nei loro stessi caschi, fu
una morte lenta e dolorosa portandoli distesi a terra con gli ultimi movimenti
delle membra segnati dagli spasmi.
Sentì i passi dietro di se, il
terrore in ogni muscolo del corpo, le lacrime agli occhi e la gola chiusa. Il
medico cominciò ad arretrare con passi scostanti per la rigidità dei muscoli delle
gambe, nel vano tentativo di fuggire dal cavallo nero come lo spazio profondo
privo di stelle che gli andava incontro. Cadde in malo modo, inciampato nel
corpo di Grace, i palmi a terra. Riuscì solo a vedere metà del sue viso, in
parte immerso nel sangue, l’espressione di terrore mista a quella di dolore
dipinta sul volto.
Lo sbuffo del cavallo lo sentì
sulla pelle, e quando voltò il capo verso di questi, si trovò di fronte due
occhi vorticanti di un’oscurità infinita.
Urlò, urlò per il terrore e per
il dolore mentre si sentiva annientato da quegli occhi, impotente ed
immobilizzato dalla paura. Urlò ma non riuscì a sentire la sua voce fino a
quando non si alzò a sedere sul letto, madido di sudore freddo, e percosso dai
tremori. Iper-vigile, con occhi iniettati di sangue, incostanti nel sondare la
stanza della casa accoglienza in cui ha preso ad abitare. La gente nei letti
intorno a lui, i propri averi rimasti nella cassa ai piedi del letto.
Cadde a terra, per via delle
lenzuola attorcigliate ad una gamba, cominciò a scalciare mentre i flashback
del sogno cominciarono a riapparire, e l’immagine del cavallo nero fisso nei
propri occhi come l’immagine di una lampadina impressa nella cornea. Raggiunse
ansante e scostante la cassa, l’aprì ignorando la decenza di non creare rumore
nel cuore della notte per recuperare il flacone di Zeleplon, lo stappò ne versò
sul palmo della mano una dose significante, senza quasi contarle prima di
buttarsele in gola restando poi a terra, in preda ai brividi con le gambe
raccolte al petto, dondolando in attesa dell’effetto degli ansiolitici.