lunedì 9 giugno 2014

I see a wonderful memory of the past.



New London - 2496 
È una reazione involontaria, quando soffriamo, siamo portanti ad ingobbirci, chinarci in avanti, piangere e dondolarsi, con la volontà di rivivere il periodo della gestazione. Il momento della vita in cui ci sentiamo davvero protetti, al sicuro.

Ma Drake no. Drake teneva sempre la schiena ben dritta, ed affrontava ogni avversità con sfrontatezza, alzando il mento e serrando la mascella. 
Reagiva in questo modo fin da bambino.

Ricordo ancora quando da bambino, chiesi a Richard in prestito uno dei suoi giocattoli, una giraffa robotica che camminava e si muoveva come un animale vero. Era piccolo, ed era bellissimo.
Ne ero affascinato e lo desideravo tanto, ma lui non mi permise mai neanche di toccarlo. Lo teneva in bella mostra e non perdeva mai l’occasione di giocarci ogni qualvolta gli fossi davanti.

Era un piccolo bastardo mio fratello.
È diventato un ottimo Companion, mio fratello.

Così un giorno, mentre era fuori casa per uno dei suoi corsi di dialettica oratoria, mi intrufolai nella sua camera, lo trovai sulla mensola più alta della scrivania e mi spaccai quasi l’osso del collo per recuperare quella piccola giraffa. Persi la cognizione del tempo, seduto a terra nella sua stanza a giocare con quell’animaletto di metallo. 
Non lo sentii arrivare alle mie spalle, vidi solo il suo braccio spuntare da sopra la mia spalla, prendere il giocattolo.
Mi voltai lo osservai con il terrore negli occhi, e non seppi cosa rispondere alle sue domande inquisitorie.
Mi chiese se volessi davvero il suo giocattolo, ed io dissi di si, con il sorriso fra gli occhi umidi, speranzoso.

Lo ruppe.

Lo prese con due mani e gli piegò il collo fino a romperlo del tutto buttandolo poi a terra dicendo che ora era mio.

Piansi tanto quel giorno, lui se ne andò dalla sua stanza ed io rimasi piegato su me stesso con i pezzi rotti della giraffa robot fra le mani.

Drake giunse solo un’ora dopo, dopo essere rientrato dai suoi allenamenti di Pyramid.
Si fernò davanti la porta della camera che dava sul corridoio e mi chiese cosa fosse successo, glielo spiegai, e mi chiese perché stessi piangendo.
Glielo dissi. 
Mi piaceva quel giocattolo e Richard mi illuse per poi romperlo.
Mi ripose la domanda: “Perché stai piangendo?” Ed io non seppi cosa rispondere, se non ripetermi.

Mi disse una cosa…
Georgy, non puoi permetterti di piangere e chinare il capo davanti a chi si comporta come una merda. Non si piega la schiena davanti a qualcuno tanto stronzo.” Non aveva mezzi termini mio fratello, neanche da bambino. “Asciugati quelle cazzo di lacrime, raddrizza quella schiena, e dimostra a Richard che non ti ha piegato.
Lo guardai stupefatto con le lacrime stoppate sulle ciglia. “Ma come?” gli chiesi.
E che cazzo ne so io, alzati e trova un modo per metterglielo nel culo e basta.

Trovai un modo per mettergliela nel culo.

Dopo che Drake ritornò in camera sua riguardai la giraffa giocattolo. Andai in bagno, salii sullo sgabello e trovai il medikit, presi un paio di stecche di legno e lo scotch bianco, e gli sistemai il collo.

La sera stessa mi presentai a tavola mostrando come avevo curato la mia nuova giraffa giocattolo.
Richard allungò prontamente la mano reclamandola come sua, ma Drake si mise in mezzo dicendo a mamma e papà che mi era stata  regalata perché Richard l’aveva rotta e non la voleva più.

Mamma e Papà chiesero se era vero, e Richard dovette ammetterlo. 
Ricordo ancora la sua espressione, sembrava avesse ingoiato un limone intero.

Drake mi insegno molto quel giorno.

Chiunque provi ad abbatterti, non abbassare mai la testa, drizza la schiena, alza il mento e trova un modo per metterglielo nel culo.

martedì 27 maggio 2014

I saw death in the eyes of the dark horse.


Capital City - 27/05/2516

Esistono sogni che sono una sequenza di pensieri collegati tra loro per fattori minuscoli in comune. Ci sono sogni dove hai il controllo, dove una parte del tuo cervello è cosciente a tal punto da permettere la guida all’interno del sogno. Ci sono sogni invece in cui sai di essere cosciente, sai di star dormendo, e ti ritrovi immobile. Sei cosciente e sei incapace di muoverti. È l’esperienza più terrorizzante al mondo, dove tutte le paure si uniscono in pochi istanti, scanditi nel tempo. Hai paura. Pensi di essere morto.

Gli incubi sono qualcosa di scientificamente utile per affrontare le proprie paure, per processare i pensieri alla quale non siamo riusciti a dare significato o prestare attenzione durante la giornata. È come se il nostro cervello avesse accantonato in un angolo centinaia di informazioni ancora da processare. Non vi è molta differenza tra questi ed i bei sogni. L’unico particolare è l’intensità emotiva di cui son carichi.

George è abituato agli incubi, li conosce bene, alcuni si son ripetuti più volte nel tempo, altri una volta soltanto.

Quando ritornò con la mente a Serenity Valley, si sentiva sicuro e preparato, non poteva aspettarsi che fantasia e realtà si sarebbero miscelati nel più terrificante dei sogni mai avuti. Indossava la tuta spaziale delle unità mediche da campo dei RedRibbon. Si muoveva per il campo base con il casco sotto il braccio per raggiungere il proprio plotone, un gruppo di uomini e donne evidenziati da quel colore sgargiante, visibile tanto di notte quanto durante giornate di tempesta o nebbia. Canarini, fu il soprannome a loro assegnato. Il capitano del plotone stava davanti a tutti, fissava negli occhi ognuno dando ordini, istruzioni e consigli su come affrontare la faccenda. George era pronto, era sicuro e preparato, sapeva cosa doveva fare.

I versi dei Mauler e dei Dragoon a distanza riempivano la valle, straziandola.

Don’t let the flock, my Canaries.

In un battito d’occhio era seduto a fianco dei suoi compagni sul lato di un thor a fissare gli occhi in quelli di Grace che ne rispecchiava la determinazione. Ognuno di loro era pronto, sicuro e preparato. 

Il thor venne fermato, i Canarini scesero a terra, i lampeggianti sulle spalle attivati, si mossero rapidi per il campo di battaglia avvicinandosi ai primi corpi, controllandone lo stato, se vi era un morto veniva segnato con dello spry sul petto una x rossa. Continuarono a muoversi fra le vittime e i feriti con l’unico obiettivo di posarsi sopra coloro che avevano abbastanza fiato in corpo per sopravvivere.

Lo scoppio delle bombe, le ripetizioni di proiettili perforanti che falciavano l’aria, ogni suono veniva tenuto lontano dalle loro coscienze, concentrati sui loro battiti per evitare di perdere la concentrazione, di cedere al terrore della guerra. Lui era chino su un Browncoat con in mano ancora il bowie macchiato del sangue di un soldato unionista, stava svolgendo il proprio lavoro, lo stava svolgendo bene, si sentiva sicuro e preparato.

Poi il sogno mutò e lui ne perse completamente il controllo.

Gli scoppi e le ripetizioni cessarono all’improvviso mentre un suono di tromba sconquassò cielo e terra. Terrorizzato, George alzò gli occhi al cielo e lo vide preda delle fiamme. Pietrificato non credette ai suoi occhi, quando dal cielo scesero sulla terra quattro cavalieri in sella a stalloni di razza dai differenti colori. Toccarono il suolo fra i soldati in preda al terrore. Il primo cavallo, dal manto di un castano rossiccio, quasi sanguigno, nitrì.

I soldati caddero in ginocchio con gli occhi sgranati e le mani portate all’addome cominciando ad urlare dal dolore fino a quando dallo stomaco delle bisce sottili e viscide scavarono la carne per uscire, e scivolare sui loro cappotti marroni.

Il secondo cavallo di un grigio polveroso nitrì e fu la volta delle giacche blu di cadere a terra. Gli arti mozzati da spade invisibili. Brevi furono le urla di dolore e sorpresa fino a quando ogni testa cadde rotolando al suolo infangato dalla pioggia e dal sangue.

Il terzo cavallo, di un bianco impeccabile ed intonso, nitrì e furono i Canarini a cadere. George si voltò per vedere i medici, i propri compagni portare le mani alla gola incapaci di respirare fino a poi tossire tutto il loro sangue nei loro stessi caschi, fu una morte lenta e dolorosa portandoli distesi a terra con gli ultimi movimenti delle membra segnati dagli spasmi.

Sentì i passi dietro di se, il terrore in ogni muscolo del corpo, le lacrime agli occhi e la gola chiusa. Il medico cominciò ad arretrare con passi scostanti per la rigidità dei muscoli delle gambe, nel vano tentativo di fuggire dal cavallo nero come lo spazio profondo privo di stelle che gli andava incontro. Cadde in malo modo, inciampato nel corpo di Grace, i palmi a terra. Riuscì solo a vedere metà del sue viso, in parte immerso nel sangue, l’espressione di terrore mista a quella di dolore dipinta sul volto.

Lo sbuffo del cavallo lo sentì sulla pelle, e quando voltò il capo verso di questi, si trovò di fronte due occhi vorticanti di un’oscurità infinita.

Urlò, urlò per il terrore e per il dolore mentre si sentiva annientato da quegli occhi, impotente ed immobilizzato dalla paura. Urlò ma non riuscì a sentire la sua voce fino a quando non si alzò a sedere sul letto, madido di sudore freddo, e percosso dai tremori. Iper-vigile, con occhi iniettati di sangue, incostanti nel sondare la stanza della casa accoglienza in cui ha preso ad abitare. La gente nei letti intorno a lui, i propri averi rimasti nella cassa ai piedi del letto.

Cadde a terra, per via delle lenzuola attorcigliate ad una gamba, cominciò a scalciare mentre i flashback del sogno cominciarono a riapparire, e l’immagine del cavallo nero fisso nei propri occhi come l’immagine di una lampadina impressa nella cornea. Raggiunse ansante e scostante la cassa, l’aprì ignorando la decenza di non creare rumore nel cuore della notte per recuperare il flacone di Zeleplon, lo stappò ne versò sul palmo della mano una dose significante, senza quasi contarle prima di buttarsele in gola restando poi a terra, in preda ai brividi con le gambe raccolte al petto, dondolando in attesa dell’effetto degli ansiolitici.

giovedì 8 maggio 2014

I saw a terrifying way.



Capital City - 2513

Si tratta di una metamorfosi.
La nostra vita.
Una continua evoluzione, un continuo cambiamento. Ci rinnoviamo continuamente ed arriviamo al punto di essere incapaci di riconoscere quello che eravamo una volta. 
Lo notiamo maggiormente quando nella nostra vita accade qualcosa di incredibilmente importante. Al punto da doverci soffermare a pensarci. Un'aggressione, un tradimento, la nascita di un figlio, la morte di una persona cara.
Il salvare una vita.

Cambiamo perchè siamo umani.
Cambiamo in base agli eventi che viviamo.
Cambiamo in base alle persone che entrano ed escono nelle nostre vite.
Cambiamo per l'amore, per l'odio ed il timore.

Non siamo altro che creta plasmata da altri, con solo poche predisposizioni genetiche come linee guida.

Nient'altro.

Esco dalla clinica come un uomo diverso, consapevole. Ho preso coscenza dei miei problemi. 
Ma non li accetto.

E solo Dio sa quanto terrore stia provando nel dover affrontare il mondo fuori da quelle quattro mura.

Mi hanno trovato un posto dove stare. Un altro dove lavorare e dove svolgere la terapia.

Ma ho paura, ho una fottuta paura.


lunedì 5 maggio 2014

I can see everything clearly.



Capital City - 2513

Ho compreso come, indipendentemente da tutto, si riesca a dare il giusto valore a qualcosa solo dopo averla persa. 
Come l'odore dell'aria pulita o il vento sulla pelle, i suoni ed i rumori della vita comune di tutti i giorni. 
Il cielo più azzurro di quanto non lo sia dietro il vetro spesso della finestra nella mia stanza alla clinica, il profumo dei fiori nelle aiuole coltivate, la risata dei bambini mentre si rincorrono per i vicoli. 
Non credevo potessero mancarmi queste cose, non gli avevo mai prestato più di tanta attenzione. Erano minuzie, erano particolari irrilevanti, una sotto trama di una vita con un filone narrativo già definito e da seguire.

Rendersi conto di questa parte della realtà è stato destabilizzante.

- Dottor Russell?

- ...

- Dottor Russell preferisce rientrare?

- no.

- Bene.

- Mi ha chiamato Dottore.

- Non lo è forse?

- Nessuno mi ha chiamato Dottore da quando sono entrato in clinica.

- Ora siamo fuori dalla clinica.

Credetti che mi stesse prendendo in giro. Eppure quando l'osservai bene, non vidi altro che la semplicità sul suo volto, come se avesse detto una cosa vera, coerente senza artificiosità, senza doppi sensi. 

- State esaminando il mio caso?

- Pura curiosità Dottor Russell.

- E non lo ritenete offensivo?

- Siete un medico. Se vi trovaste davanti la possibilità di esaminare un soggetto per comprendere la malattia che lo affligge allo scopo di ricercare una cura per possibili pazienti futuri, cosa fareste?

- Esaminerei il Soggetto.

- Appunto.

Ancora una volta la semplice schiettezza, la raffigurazione della realtà rappresentata dalle sue parole era qualcosa di indiscutile, reale... non un pensiero ma una certezza, un fattore concreto, come nell'arte medica, o nella matematica dove persino le varianti vengono risolte, o utilizzate per ottenere risultati certi. 

- Allora l'aiuterò a risolvere questo caso clinico Dottor Stone.

- Ottimo, la ringrazio. Dove partirebbe ad esaminare il soggetto?

- Dalla diagnosi preliminare.

- E successivamente?

- Successivamente verificherei in prima persona la certezza di tale diagnosi.

- Quindi abbiamo il PTS, la sindrome del sopravvissuto e l'acluofobia.

- Esatto.

- Lei ha paura del buio Dottor Russell?

Fu strano. Il botta e risposta avvenuto fino a quel momento, fu quasi istintivo. Mentre osservavo il giardino fuori dalla clinica, preso a rimirare i colori accesi dei fiori, aveo ragionato e risposto in maniera istintiva senza pensarci concretamente, fino a quella domanda. Riportai lo sguardo sull'uomo osservandolo nel suo completo marrone. Non riuscivo a capire. Per la prima volta non riuscivo a comprendere a pieno il suo intento.

- Quindi? Avete o non avete paura del buio Dottor Russell?

- Io... no, non credo di avere paura del buio.

- Siete disposto a provarlo? perchè come sa, solo con gli esperimenti si ottengono dei risultati che possono avvalorare o confutare tale diagnosi.

- Io... non ho paura del buio stesso ma... di quello che mi porta a pensare... di quello che mi porta ricordare.

- Capisco. Quindi una situazione di completa oscurità la porta alla mente i ricordi orribili della guerra e pensieri ancora più paurosi. Cosa teme di quei pensieri?

- La perdita di controllo.

- Vuole spiegarmi meglio?

- Temo mi possano portate ad agire in maniera sconsiderata, senza pensare... temo possano portarmi a fare cose di cui possa pentirmi in un futuro.

- Eppure lei pensa eccessivamente.

- Come?

- Lei. Lei è uno che pensa troppo Dottor Russell. Capisco che il suo desiderio sia quello di fare sempre la cosa più giusta nel migliore dei modi, senza errare per ottenere sempre il miglior risultato possibile, e per questo a bisogno di pensare, analizzare ogni scenario, ogni possibilità ed ogni variabile, ma lei è anche un chirurgo. Quando deve operare deve prendere delle decisioni e non si può permettere di perdere tempo prima di c...

- Io sono un ottimo Chirurgo!

- Allora comprenderà che quello che le sto dicendo è vero. Lei dice di aver paura di cedere all'istinto così radicalmetne da perdere la ragione, eppure è il primo che ammette, che sa e che compie azioni avventate durante le operazioni chirurgiche.

- Ma per quello sono preparato, ho studiato qualsiasi soluzione medica possibile allo scopo di salvare vite.

- Allora salvi la sua vita.

Per la terza volta rimasi di sasso. L'indecifrabilità di quell'uomo era tale da lasciarmi incapace di analizzare la situazione. Ogni variabile era invisibile, ogni intento celato dalla realtà dei fatti, delle sue parole. L'evoluzione del discorso preso era stato creato in modo tale da portarmi in una fase di stallo, come una persona davanti allo specchio per constatare di essere lui stesso il riflesso. Dovevo essere messo in mostra, dovevo mostrarmi a me stesso per quello che sono, comprendere la realtà dei fatti, destrutturarla, identificare il problema per poi trovare la soluzione più adatta al problema.

- Dopo tutto è quello che mi ha detto di voler fare poco fa non è vero? Aiutarmi con questo caso clinico, trovare una soluzione, una cura alla malattia. E sappiamo per certo che lei è l'unico fra i due a poter agire sul paziente per curarlo. Esamini il problema che l'affligge ed impari da esso perchè non esiste nessun volume da leggere nel quale potrà trovare ed apprendere i modi utili per "vivere".

A life without purpose is useless.

Capital City - 2513

Nella City ogni professione ha la sua cerchia di intellettuali. Persone scelte fra le menti più fini, salotti dove le discussioni si evolvono e possono portare a risvolti pratici ed influenzare la vita dell'intera popolazione dei mondi centrali. In molti a Capital City reputano sia più importante, fra i vari salotti, quello Politico, dove la stessa Shepard ha preso parte prima di ricoprire la carica di Presidente. Ma chi vi partecipa sa che la vera cerchia in grado di muovere gran parte dell'economia dei Core Worlds è quella dei Medici. Che siano Chimici, Chirurghi, Farmacisti o Teorici, riunendosi nei loro salotti sono in grado di portare le discussioni mediche ad alti livelli, possono prendere decisioni che possono smuovere l'economia per la scelta dei medicinali da produrre o meno, i prezzi da imporre sul mercato, o le ricerche da divulgare per migliorare le condizioni di vita dei popoli dei mondi esterni. I Medici sono in grado di muovere e rigirare il 'Verse con molta facilità. Nel 2512, sulle bocche dei vari partecipanti del Salotto Medico, cominciò a prendere posto il nome di Abe Stone, Medico Rimmer nonchè debellatore di un epidemia di fuoco di Saint Miguel a Richleaf ed anche se gli venne concessa una Laurea ad Onorem dall'Università della capitale, per molti medici dei mondi centrali, veniva considerato ancora "un semplice Rimmer".

La visita alle varie strutture mediche della capitale, fu uno dei privilegi concessi dalla stessa Università, per permettere al Promettente rimmer di osservare i vari laboratori, le strutture costosissime ed i vari reparti. Una sorta di "dito nella piaga" per insinuare come i Corer possiedano i mezzi per fare qualsiasi cosa, a differenza dei Rimmer.
Fu nella struttura Psichiatrica di Capital City che il Medico si fermò per più tempo e dove, grazie alla collaborazione della Dottoressa Blackwood, si aggiornò sui vari pazienti in cura, per apprendere il trattamento imposto dalla struttura medica, le evoluzioni delle varie sperimentazioni e le analisi dei relativi medici.

- George Russell, ventitrè anni, uomo, caucasico, originario di Capital City. Internato per un esaurimento nervoso sfociato in patologie quali: Stress post-traumatico, Sindrome del sopravvissuto ed Acluofobia. Residente presso la struttura da un anno ormai. Qualche progresso?

Chiese con fare professionale verso la bionda seduta sulla poltrona a lui davanti. Accavallando le gambe e risistemandosi la cartelletta, osservò la foto del paziente.

- Il paziente si è mostrato per la maggior parte del tempo collaborativo durante la terapia. 

- Per la maggior parte? Se ha rifiutato la terapia sarebbe una reazione comune e comprensibile.

- Ci sono stati alcuni episodi in cui il paziente ha preferito mettersi sul mio stesso livello, come medico, per discutere del suo stesso caso clinico o rivoltare le domande in modo da ottenere risposte ed informazioni, quasi volesse analizzarmi.

- Come se stesse stilando una sorta di anamnesi?

- Precisamente.

Il medico riportò lo sguardo sulla cartelletta osservando con attenzione i vari rapporti scritti dalla donna.

- Che impressione si è fatta del soggetto?

- Russell è... un paziente singolare in effetti. Durante le sessioni è stato difficile riuscire a determinare correttamente il suo profilo psicologico. A volte vorrebbe essere il medico in grado di guarire chiunque, in grado di combattere ogni malattia, accettando la vittoria come solo risultato...

- Come tutti noi medici del resto...

- A volte cade in depressione, non riesce a determinare uno scopo sensato, ideale o coerente che possa permettergli di vivere.
Lo sguardo chiaro della dottoressa si fissò sull'espressione pensosa dell'uomo, osservandolo con attenzione quasi stesse analizzando un nuovo paziente.

- Uno scopo...

- Russell, ritiene che vivere una vita senza realizzare qualcosa di concreto, senza creare un beneficio o rendere migliori le situazioni di vita di altri non abbia senso. Vivere soltanto per vivere la giornata, equivale ad essere un essere comune, una nullità a detta sua. 

- Un po' superbo da parte sua.

- Forse. Ma non è forse quello che tutti noi aspiriamo durante la nostra adolesceza?

Il dottor Stone rialzò lo sguardo sul volto della bionda, inarcando un sopracciglio nel sentire la sua risposta, curioso per il tono utilizzato dalla stessa.

- Noto che il caso le interessa particolarmente.

- ... Russell è un paziente singolare ma non ritengo che sia da affiancare agli altri pazienti. Non è...

- Al loro livello? Eppure ha reazioni parecchio estreme.

- Alcuni lo considerebbero passionale per questo.

- Alcuni o lei dottoressa?

- Ritengo che il paziente sia insoddisfatto dalla sua vita, che abbia accettato di arruolarsi per ricercare uno scopo da perseguire nella sua vita, e notando come la guerra crei più danni che condizioni favorevoli alla vita, si sia sentito tradito dal mondo stesso in cui ha vissuto, scoprendo come la realtà presentatagli sia una mera bugia. Russell aspira a qualcosa di grande, ama il suo lavoro, crede profondamente nel giuramento che ha prestato, di salvare ogni vita possibile, ad ogni costo, indipendentemente delle sue stesse condizioni di salute. A mio avviso dovremme essere dimesso, rientrare nel mondo reale e ricercare in questo, la sua strada.

Il silenzio prese posto alle parole della dottoressa Blackwood. Il dottor Stone continuò a sfogliare la cartelletta del paziente prendendosi tutto il tempo esistente, come se si ritrovasse in un laboratorio, davanti al microscopio adanalizzare l'evoluzione e la diffusione di un agente patogeno.

- Comprendo il suo punto di vista dottoressa e mi piacerebbe assistere alla presentazione della sua richiesta di rilascio alla commissione medica. Penso che il paziente sia interessante, anche se per condividere la sua valutazione dovrei comunque avere modo di esaminare il soggetto in prima persona.

- Quando è disponibile ad incontrarlo?

Il rimmer alzò nuovamente il capo, la fronte corrugata per la sorpresa ed il sospetto.

- Anche subito Dottoressa Blackwood.

sabato 26 aprile 2014

I see the reality of life.

 

Capital City - 2512

Ogni persona è terrorizzata dall'essere considerata anormale, diversa, strana, pazza.
Ma tutti noi viviamo in fin dei conti le stesse fasi, assaporiamo gli stessi piaceri, proviamo le stesse paure, gli stessi dolori ed abbiamo gli stessi pensieri.
Pensieri terreficanti, pensieri destabilizzanti. Pensieri che sono in grado di minare le nostre credenze, pensieri che annullano la nostra volontà o le nostre certezze, accentuandone i dubbi.
Pensiamo alla nostra morte, pensiamo alla morte dei nostri cari, pensiamo possa succedere a noi o a loro qualcosa di brutto, di devastante. Abbiamo fantasie sessuali strane, che temiamo di divulgare per paura di venir allontanati, derisi discriminati. Abbiamo istinti difficili da spiegare.
Mettiamo dei paletti, che non si limitano ad essere delle linee guida utili per il quieto vivere. Mettiamo dei paletti, dei recinti sociali. Delle regole che ci imponiamo di seguire e li tramandiamo ai più piccoli, o agli estranei ed ogni pensiero che appare in mente viene allontanato, scostato come in una folla, ed accantonato perchè, considerato non giusto, anormale. Perchè lo temiamo.
Socialmente siamo talmente repressi, talmente costretti dal non riuscire a mostrarci per quello che siamo, ci riuniamo in sottogruppi, in caste in cerchie di persone con il solo intento di trovare protezione nell'uguaglianza ed additare il diverso su cui possiamo sfogare tutta la nostra ira repressa. Un capro espiatorio.
Eppure siamo umani. 
Eppure da soli non riusciamo a vivere.

Ci alziamo al mattino come scheletri, indossiamo il nostro corpo come un vestito, ci prepariamo davanti allo specchio sorridendo ed usciamo di casa pronti a recitare. 

Non sto parlando dell'ipocrisia che dilaga nelle città, attenzione, non parlo del semplice piantarsi un sorriso in volto e fingere che tutto vada bene. Sto parlando di come la vita che viviamo non sia la realtà, non sia quello che dovrebbe essere. Di come a guardando la realtà dall'esterno, tutto ciò che ci circonda sia stato creato per rinchiuderci, imbrigliarsi e costringerci a vivere una vita imposta da altri.
Noi siamo umani e non possiamo essere quel che vogliamo essere, e quelli che si oppongono a questo pensiero vengono considerati pazzi, folli, bisognosi di terapie.

Io sono un dottore, ho visto le atrocità della guerra, i miei occhi si sono aperti, ho visto la realtà per quello che è, e non si tratta di un holofilm con la propria soave colonna sonora, non si vive di sorrisi e buone intenzioni, speranze ed obiettivi. 
Non si tratta di un romanzo che ha un inizio, un'evoluzione ed una fine.
Il cielo non è azzurro, l'aria non è fresca.
Il cielo è grigio e l'aria è tagliente.
La vita, la realtà è sempre la stessa.
Nasciamo dal desiderio di qualcuno, viviamo costretti in forme imposte, troviamo qualcuno con cui passare la nostra vita per non sentirci soli, una vita falsa, impossibilitati a presentarci per quello che siamo, per poi inesorabilmente morire nella solitudine del nostro letto, o sul campo di battaglia.

Mi considerano pazzo, perchè non vivo come desiderano.
Mi considerano pazzo perchè non penso come pensano gli altri, perchè non penso vorrebbero, come si dovrebbe.

Dicono che sono depresso perchè penso solo a cose violente, orribili e disturbanti, perchè secondo loro non sono in grado di pensare alle cose belle della vita.
Se sapessero... 
Io bramo le cose belle della vita, bramo il poter essere me stesso fra gli altri.
Desidero così ardentemente poter alzarmi la mattina col sorriso sulle labbra, esercitare la professione che amo, circondarmi di persone amate. Bramo il poter trovare la donna o l'uomo con cui poter passare la mia vita, con cui svegliarmi ogni mattina e coricarmi ogni sera. Il godermi ogni attimo di beatitudine, anche semplice come il sdraiarsi su un prato appena tagliato o immergersi nell'acqua fresca di un fiume.

Ma ho visto l'orrore della vita, ho aperto gli occhi e la mia mente non può più ignorare la realtà dei fatti.

Eppure pagherei per avere la vostra ignoranza, la vostra miopia, pagherei per ritornare ad essere quello stupido ed illuso ragazzo incapace di vedere le costrizioni e la morte dietro ogni angolo.

Siamo umani.

lunedì 21 aprile 2014

I don't know what I should do.

Capital City - 2512

Passai un paio di giorni nell'infermeria della clinica, per esami ed accertamenti dopo il pestaggio subito. A quanto pare le ferite superficiali non erano gli unici danni subiti. Riscontrarono un lieve trauma cranico e non volevano sottovalutarlo. Gli antidolorifici aiutavano parecchio e per la maggiorparte della degenza vissi quell'esperienza come una benedizione. La mente era offuscata, dormivo per la maggiorparte del tempo ed il contatto con le persone era ben limitato al personale medico.
Quando uscii da quella stanza... fu come strappare un cerotto su una ferita ancora in via di guarigione, sensibile ed ancora dolorante.
La dottoressa Blackwood non attese molto prima di riprendere le nostre sessioni. Mi attese all'interno della stanza seduta sulla poltrona in un bell'abito azzurro e camice bianco. I soliti convenivoli e di nuovo prese a porre domande.

- Qual'è il ricordo più importante che hai della guerra?

- Della guerra?

- Esatto.

- La campagna di sensibilizzazione Unionista per la chiamata alle armi.

- La campagna? Parli dello slogan?

- Si...

- La maggior parte dei soldati rientrati riporta ricordi devastanti riguardo i compattimenti, la morte di qualche compagno, la caduta delle bombe, i fischi dei proiettili e le urla.

- Questo dovremme farmi sentire diverso?

- Lo siamo tutti a nostro modo.

- Ma ha appena detto che gli altri soldati riportano ricordi differenti riguardo le atrocità della guerra, sta intendendo che non sono un soldato? Che sono differente da loro?

- Stai rigirando la terapia. Sono io il medico in stan...

- Anche io sono un Medico!

Aveva uno sguardo determinato, e solido tanto quanto la sua postura. Quelle iridi chiare si erano fissate su di me, penetrando il mio sguardo che non voleva calare, perchè pareva un affronto o un confronto, e mi ritrovai a non poter mollare. Ma non era lo sguardo il problema quanto il silenzio. Il lungo silenzio che riempì la stanza come se la dottoressa avesse preferito testarmi silenziosamente per lasciarmi la libertà di sfogare la frustrazione ed il nervoso che mi dominava o forse semplicemente lasciare spazio alle mie emozioni per comprendere al meglio il caso.

- Non dice niente?

- Cosa preferiresti che ti dicessi, George?

- Qualunque cosa. Dica qualcosa, non stia li semplicemente in silenzio a far passare il tempo.

- Non hai combattuto.

- What?

- Non ti sei difeso, con O'Malley.

- I'm a Doctor!

- Lo so bene. Eppure non hai combattuto, ti sei lasciato sopraffarre senza il minimo di esitazione, ti sei lasciato colpire senza alzare un dito, perchè?

- Perchè sono un Medico!

- Continui a ripeterlo ma...

- Ho prestato un giuramento Dottoressa Blackwood. Un giuramento che ho intenzione di mantenere.

- Questo lo capisco, ma anche i medici se minacciati reagiscono per sopravvivere. Ma tu no, non ti sei difeso.

- Nel giuramento è scritto che non possiamo fare del male a nessuno.

- Quindi ti sei lasciato colpire solo per mantenere fede ad un giuramento.

- Esatto.

- Io credo che tu l'abbia fatto per aiutare O'Malley ad affrontare il suo problema. Tutti in passato lo hanno affrontato, tutti hanno tentato di salvarsi combattendo con lui, ma tu no. Tu sei rimasto immobile senza alzare un dito perchè sapevi che aveva bisogno di ritrovarsi ad affrontare se stesso.

Ci fu un altro lungo silenzio in cui la dottoressa non distolse lo sguardo neanche per un secondo, un lungo momento in cui aspettava una qualche mia reazione, sperava forse in una risposta o forse era lo stesso mio silenzio ad essere la risposta di cui necessitava. Lei si appuntò qualcosa sul pad quando distolsi lo sguardo sulla finestra.

- In quello scontro O'Malley non stava affrontando George Russell che si rifiutava di combattere, in quello scontro O'Malley stava affrontando se stesso che era incapace di reagire alla sua disfatta, perchè fino ad allora avava sempre affrontato un O'Malley rancoroso e desideroso di combattere. 

- Se lo dice lei...

- Stavi cercando di salvarlo?

- Non dovevamo parlare dello slogan?

- Come preferisci. Perchè lo slogan è il ricordo più importante che possiede della guerra?

- Perchè... Faceva delle promesse. Parlava di patriottismo, di proteggere la propria terra, la propria famiglia. "Uniti sotto la stessa bandiera non siamo una comunità, siamo una famiglia e non ci si può permettere di lasciar morire un familiare senza provare a difenderlo." Ero un idiota... non sapevo cosa realmente volesse dire. Pensavo di poter fare del bene, di poter fare la differenza, di cambiare le cose, la situazione, la vita di qualcuno. Credevo che scendere sul campo di battaglia mi avrebbe permesso di essere un...

- Un eroe?

- Qualcosa del genere.

- Eppure lo è stato. Ha ricevuto un encomio per il suo operato. Ha salvato molte vite a quanto mi risulta.

- Come ogni altro medico presente dottoressa.

- Quindi sperava di diventare superiore ai normali medici che l'affiancavano?

- Io...

- Eccome come stanno le cose, George. Anticià unendo le mani e sporgendosi in avanti per accorciare le distanze. Sei un ragazzo giovane che ha sempre desiderato di mettersi alla prova, di dimostrare alla propria famiglia ed ai bulli che l'hanno schernita in passato di essere superiore a loro di essere inarrivabile per la comune gente, ed ha compreso che chi meglio di un un medico può essere considerato al pari di un eroe?

- Lei...

- Ma noi medici non siamo degli eroi. Non siamo dei santi ne tantomeno delle divinità. Siamo esseri umani come tutti gli altri. Se ci tagliamo, sanguiniamo. Se ci sparano al cuore, moriamo. Se affrontiamo delle situazioni terribili ne rimaniamo shockati. Non siamo eroi, non siamo esseri invicibili, siamo persone comuni che hanno dedicato la loro vita alla scienza, alla conoscenza ed al curare le altre persone comuni. E questo, questo è un fatto con cui hai dovuto fare i conti in prima persona.

- ...

- Devi comprenderlo George. Tu non sei un eroe, le vite di tutte le persone che ti stanno attorno non dipendono da te e non puoi salvare qualcuno se prima non pensi a salvare te stesso. Per salvare qualcuno, devi restare in vita.